Prima,
Marco Morelli, a cui il governo ha affidato il salvataggio di Banca Mps, comincia a vedere la luce fuori dal tunnel. E racconta come, nel 2016, con i 22mila dipendenti ha lavorato per ricostruire la reputazione e la clientela della “banca più antica del mondo”
Chi dice Siena dice arte, storia, Palio e… Monte dei Paschi. Le prime due hanno fatto sì che la città toscana sia stata inserita già da 24 anni nella lista dei siti Patrimonio dell’Umanità dell’Unesco. In quanto al terzo, il Palio, che, due volte l’anno (il 2 luglio in onore della Madonna di Provenzano e il 16 agosto Festa dell’Assunta), con grande scandalo degli animalisti, mette in lizza in piazza del Campo dieci cavalli in rappresentanza di altrettante contrade delle 17 in cui è suddivisa la città, non è certo una semplice corsa. Nulla peraltro è ‘semplice’ quando si tratta di Siena e del suo orgoglioso attaccamento alle proprie antiche istituzioni, banca e università. Nel corso dei secoli (le origini si perdono intorno al 1200), il Palio è entrato così radicalmente nella vita di ogni singolo senese e della città, da definirne l’identità oltre che la struttura organizzativa, gerarchica e persino di genere. Un sistema basato sull’accesa competizione tra contrade impegnate in un continuo trattare e tramare per arrivare ad accordi e alleanze che spesso non mirano ad assicurarsi la vittoria, ma senz’altro la sconfitta del rivale più odiato. Una tradizione che è diventata apparato sociale, che per mantenersi e crescere ha sempre fatto riferimento all’altro grande pilastro della città, il Monte dei Paschi di Siena che, nato nel 1472, è considerato la più antica banca in attività al mondo. A confermarlo la battuta di un ex dipendente (era direttore degli affari generali e legali), il famoso vignettista del Corriere della Sera Emilio Giannelli: “A Siena ci sono tre categorie: quelli che lavorano al Monte, quelli che lavoravano al Monte, quelli che vorrebbero lavorare al Monte”.
Il valore e il ruolo che ha a Siena il Monte dei Paschi non sono certo limitati ai pur importanti posti di lavoro. Nel 2004, tanto per capirsi la potente Fondazione Cariplo erogava in Lombardia, dove risiede circa il 22% della popolazione italiana, 160 milioni l’anno, mentre la Fondazione Mps (azionista di maggioranza dell’istituto) ne elargiva 170 nelle sole province di Siena e Grosseto.
La fondazione controllata dagli enti locali – da qui l’intreccio stretto con il sistema politico – interveniva dappertutto. Bisognava costruire una strada, sistemare una scuola o un giardino? Sponsorizzare un festival culturale, un torneo sportivo o finanziare una bocciofila? Ecco l’aiutino del Monte dei Paschi. Nei tempi d’oro, alla voce sponsorship corrispondevano cifre fino a 50 milioni e naturalmente piovevano soldi anche sulle contrade. Nulla a Siena si muoveva senza la potente banca, peraltro volano di sviluppo dell’intero territorio.
Nel 2011 tutto sembrava andare a gonfie vele e Mps era la quarta banca italiana per capitalizzazione. Si può ben immaginare dunque lo scossone che, a partire da Rocca Salimbeni – il palazzo del XIV secolo sede della banca – colpisce le fondamenta della città quando, nel 2012, diventa evidente che l’acquisizione di Banca Antonveneta, pagata nel 2009 durante la gestione di Giuseppe Mussari al prezzo ‘generoso’ di 9,1 miliardi, ha creato una voragine nei conti dell’istituto. Un disastro a cui il nuovo vertice (Alessandro Profumo, presidente, e Fabrizio Viola, ad) cerca di porre rimedio con una riorganizzazione radicale, tagli ai costi (e al personale) e con due aumenti di capitale (5 miliardi nel 2014 e 3 miliardi nell’anno successivo). Una tempesta finanziaria che prende i risvolti di un giallo quando, nel marzo 2013, muore, precipitando dalla finestra del suo ufficio, il responsabile della comunicazione della banca David Rossi. Una morte drammatica che tuttora non ha una spiegazione e sulla quale le indagini, a distanza di sei anni, sono tutt’altro che chiuse.
Intanto le manovre finanziarie cambiano faccia all’azionariato: la Fondazione passa da oltre il 50% a poco più del 2%, facendo diventare rilevante la presenza della compagnia assicurativa Axa con il 3,5% e soprattutto quella dello Stato che, avendo trasformato in azioni i Monti bond non completamente rimborsati alla scadenza, diventa primo socio con il 4%. Tutto ciò non risolve la disastrosa situazione in cui il Monte è precipitato, anche perché l’impatto del volume di crediti deteriorati si è fatto davvero forte. Sale l’allarme, si diffondono voci di un possibile default che prendono corpo dal fatto che la banca, dal 2013 al 2016, ha perso 50 miliardi di crediti e tra i 30 e i 35 miliardi di raccolta commerciale perché la gente teme che Mps non stia più in piedi. La gestione di Viola e Profumo finisce tra le polemiche e quando, nel mese di settembre 2016, la situazione sembra vicina al precipizio l’allora ministro dell’Economia e delle finanze Pier Carlo Padoan tira fuori dal cappello un candidato kamikaze a cui affidare il tentativo di salvare la banca. È Marco Morelli, un nome stimato e noto negli ambienti economici e bancari, ma sempre attento a mantenere il basso profilo, che conosceva il Mps per averci lavorato sette anni, dal 2003 fino a quando, nel febbraio 2010, approda a Intesa Sanpaolo come direttore generale vicario della Banca dei Territori e ci rimane fino al luglio 2012, quando assume incarichi di vertice in Italia e in Europa per Bank of America Merrill Lynch. Lo accompagnava una fama di professionista competente che però non evita una serie di articoli del Fatto Quotidiano piuttosto critici perché per l’incarico a Siena è stato scelto da JP Morgan (dove aveva lavorato all’inizio della carriera diventando direttore generale per l’Italia), cui Matteo Renzi, da presidente del Consiglio, aveva affidato la selezione e la ricerca di possibili investitori, e perché è ritenuto vicino al mondo delle cooperative rosse. Il Fatto, sempre molto attento alle vicende senesi, ricorda il suo ruolo come dirigente di Mps nella concessione di alcuni crediti a imprenditori un tempo vicini a Denis Verdini, potente esponente di Forza Italia poi avvicinatosi a Renzi, e nel finanziamento per l’acquisto di Antonveneta (Morelli è stato completamente scagionato dalla magistratura).
Il cambio della guardia è comunque motivato dalla necessità di dare discontinuità al vertice, in un momento in cui servono nuovi interlocutori per potenziali investitori. “La Bce chiedeva a Mps di fare un’altra importante azione sul capitale, per ripulire la massa di Npl, i crediti deteriorati”, ricorda oggi Morelli. “L’operazione era partita in estate, prima del mio arrivo. Ma presto ci si era resi conto che era molto difficile realizzarla. In ogni caso bisognava provarci. Oltretutto, per ricorrere eventualmente all’intervento precauzionale e temporaneo dello Stato, come chiedevano le autorità europee, bisognava esperire tutte le possibilità di realizzare un’operazione di mercato. Gli ostacoli erano tanti, compresa la grande attenzione mediatica che si era sviluppata intorno a Mps. Le domande per lo più erano sempre le stesse e, anche a volerlo, era difficile dare una risposta: ‘Ce la farete? Che cosa succede oggi?’”. Una storia dai contenuti drammatici e rocamboleschi entro la quale Morelli ha tessuto una strategia per ridare voglia di farcela ai 22mila dipendenti del Monte dei Paschi, per convincere gli occhiuti controlli delle istituzioni europee, per fare i conti anche con il calendario politico. Il referendum istituzionale in programma per dicembre non aiutava infatti a incentivare gli investitori, soprattutto stranieri. Il risultato non era affatto scontato. Il 4 dicembre 2016 la vittoria del no e le dimissioni di Matteo Renzi hanno reso ancora più problematica l’operazione di ricapitalizzazione del Monte, gli imprenditori che sembravano disposti a mettere risorse hanno fatto dietrofront e non ha giovato il fatto che la Bce non avesse concesso una proroga a inizio anno.
Fin qui la storia e da qui comincia un’intervista anomala per Prima. Il contesto non è propriamente quello legato ai media, ma racconta di come è importante avere sensibilità e senso della comunicazione per gestire le relazioni con tutti gli stakeholder, dai dipendenti ai clienti, alle istituzioni nazionali, locali ed europee, fino agli investitori e ai giornalisti. E di quanto sia necessario essere pronti a stabilire rapporti veri e possibilmente sinceri, coinvolgendo ogni interlocutore nella partita del salvataggio di un grande patrimonio. Una vicenda che vale l’intervista che Morelli ha deciso di concedere a Prima, adesso che la storia di Mps si è un po’ normalizzata, molti clienti sono tornati nelle filiali e il polverone mediatico sembra essersi placato. Inoltre il mondo delle banche in questi tempi è tra quelli che dimostrano più interesse e sensibilità comunicativa e il racconto di Morelli è una bella testimonianza.
Partiamo da quando il 23 dicembre il governo Gentiloni, in carica da poco più di due settimane, interviene con il decreto per la ricapitalizzazione precauzionale di 5,4 miliardi.
Lo Stato diventa azionista al 68,2% del Monte attraverso il ministero dell’Economia e delle finanze, a seguito del mancato completamento di un’operazione di ricapitalizzazione decisa e approvata prima del mio arrivo. Secondo il principio della condivisione degli oneri previsto dalla normativa dell’Ue, anche azionisti e obbligazionisti debbono partecipare al salvataggio. Agli inizi di febbraio del 2017 partono quindi le trattative con la Commissione europea e gli organi di vigilanza su un piano di ristrutturazione.
Cioè?
L’intervento, secondo la direttiva europea che è stata applicata, deve essere, innanzitutto, temporaneo: la presenza pubblica nell’azionariato non deve durare più di cinque anni. Inoltre la Ue chiede, in caso di intervento dello Stato, un profondo taglio dei costi con interventi dell’organico per garantire il ritorno a una marginalità positiva sostenibile.
In poche parole siete dovuti intervenire abolendo posti di lavoro.
La trattativa – durata diversi mesi – si è chiusa senza licenziamenti, ma con esodi volontari accedendo al fondo esuberi. Gran parte del 2017 è stata dedicata alla finalizzazione del piano e al rimborso degli obbligazionisti che avevano sottoscritto un bond subordinato della banca. Ma durante quei mesi abbiamo avviato il recupero commerciale attraverso la ripresa della raccolta.
Come ci siete riusciti?
Era essenziale ricreare un rapporto con le comunità locali e le istituzioni in un momento storico nel quale anche la città viveva una relazione complicata con la banca, nonostante questa fosse stata per decenni il punto di riferimento economico del territorio. Uno dei passaggi più delicati è stata la gestione degli aspetti reputazionali.
Immagino che sia uno dei tanti elementi su cui le autorità europee vigilano.
Nel settore bancario le regole imposte dall’Europa sono molto rigide. Quelle applicate agli istituti in regime di aiuti statali sono ancor più stringenti e riguardano anche la comunicazione.
Per questi motivi appena arrivato a Rocca Salimbeni ha subito dato un’occhiata di riguardo alla struttura di comunicazione.
Prima del mio arrivo l’area Comunicazione era gestita assieme all’Organizzazione e al Personale. Ho deciso di darle una focalizzazione più precisa e puntuale mettendola a mio riporto diretto. Con Marco Palocci, che ho chiamato ad affiancare Luca Grassis, e l’aiuto prezioso di Noris Morano abbiamo avviato un lavoro di normalizzazione dei rapporti con tutti i nostri interlocutori: i media, le istituzioni nazionali e internazionali, i dipendenti, i clienti. Essendo poi lo Stato il nostro principale azionista, avevamo ancor più di altri la necessità che vi fosse un rapporto chiaro, trasparente e coordinato con le istituzioni locali e nazionali. Inoltre, abbiamo rimesso nel cassetto gli studi precedentemente avviati sulla opportunità di cambiare marchio e siamo ripartiti dando incarico a un soggetto esterno alla banca, Swg, di misurare con indagine demoscopiche e una serie di focus la percezione del brand e del posizionamento della banca in generale, in modo da avere una base oggettiva su cui innestare le nostre riflessioni. Le stesse analisi sono state peraltro ripetute nel 2018 e nel 2019 al fine di valutare i risultati della nostra attività.
E quali sono stati i primi esiti?
A prima vista, i risultati dell’indagine 2017 sono apparsi disastrosi. Ma c’erano due punti su cui far leva per avviare un percorso di rilancio. Il primo riguardava la fedeltà della clientela della banca. La prima indagine, come anche le successive, ha rilevato che i clienti avevano una percezione migliore della banca rispetto a chi non era cliente Mps. Il Monte veniva percepito come una casa, un approdo familiare. Esisteva ancora un forte rapporto emozionale con noi.
Il secondo elemento?
Il marchio era ancora molto apprezzato e veniva percepito per il suo radicamento e la sua storicità: come quello della più ‘antica banca al mondo’. Per qualche addetto ai lavori poteva apparire come un handicap o un antico retaggio del passato. Invece faceva emergere una fiducia implicita che poteva essere una delle basi su cui ricostruire un sano rapporto commerciale con i clienti.
E per questo avete pensato a una campagna pubblicitaria?
Il personale sul territorio chiedeva un segnale concreto di ritorno sul mercato. Ma in questo caso abbiamo fatto una valutazione molto ponderata e indetto una gara, a cui peraltro un’importante agenzia si è rifiutata di partecipare perché convinta che l’immagine della banca fosse ancora talmente danneggiata da mettere a repentaglio il successo della stessa. Alla fine, ha prevalso J. Walter Thompson. Il brief erano gli esiti dell’indagine Swg. Da questo processo è nata la nostra campagna di ottobre 2017: non parlava della banca o di soldi, ma probabilmente trasmetteva i giusti messaggi. La campagna ha ricevuto anche dei premi e i ritorni sono stati molto positivi.
Un bel risultato.
Soprattutto per l’inizio del 2018. Ci siamo resi conto che i clienti non avevano tagliato del tutto i ponti con la banca. Il 2018 è stato quindi l’anno durante il quale la banca si è rimessa in cammino, con oltre 10 miliardi di nuove erogazioni nel credito e un importante consolidamento nel livello di depositi commerciali. Tutto ciò grazie anche al lavoro di migliaia di persone sul territorio e nelle filiali, che già avevano dimostrato una tenuta eccellente alla fine nel 2016 e all’inizio nel 2017. Nel 2018 siamo quindi tornati a operare come una banca ‘normale’ e a produrre risultati positivi, nonostante un monitoraggio attento e pervasivo da parte della Commissione europea e degli organi di vigilanza. Rispetto ai nostri concorrenti abbiamo molti più limiti e minori margini di manovra.
Visto quanto è accaduto, è un’azione di vigilanza doverosa.
Certamente. Ma per noi è come correre una gara in MotoGp in cui gli altri hanno a disposizione le adeguate vie di fuga, mentre noi viaggiamo con degli alti muri di cemento ai bordi della pista contro i quali rischiamo di schiantarci se sbagliamo anche di poco le traiettorie. Le restrizioni riguardano ogni voce di bilancio; non sono ammessi bonus o piani di incentivazioni, per esempio. E valgono per tutti, a partire dall’amministratore delegato.
Quindi ci sono limiti anche sul fronte della comunicazione?
Sì, abbiamo una serie di regole a cui dobbiamo sottostare anche per la comunicazione. Abbiamo ridotto in modo drastico le sponsorizzazioni. Le iniziative su cui puntiamo oggi sono solo quelle funzionali all’attività commerciale della banca nei nostri diversi presidi territoriali. La più importante è Officina Mps, un contest per startup che abbiamo avviato l’anno scorso con il supporto di Accenture. La forza del progetto non è il premio dato ai vincitori, ma è quella di selezionare e valorizzare nuove competenze per trasferirle all’interno della banca, in un processo di crescita reciproca. A fine maggio a Firenze, tra i finalisti della seconda edizione ha prevalso Ugo, una startup che offre attraverso un’app un ‘caregiver’ su richiesta pronto a intervenire quando nessun familiare o amico può prendersi cura della persona fragile, aiutandola a sbrigare le attività quotidiane. Nella prima edizione aveva invece vinto Trovabando, un’azienda che aiuta a orientarsi tra i bandi europei. Ma grazie a Officina, in realtà, siamo riusciti a far lavorare con noi molte altre startup che ora affiancano diversi nostri colleghi nell’ideazione di nuovi prodotti e servizi.
Dopo quello che è successo non deve essere stato facile ridare molti stimoli a tutta la struttura.
Fin dal mio arrivo ho cercato di essere fattuale e trasparente con tutti i dipendenti che ho costantemente informato. Trovo corretto dire: “Siamo partiti da qui, alla fine del 2016 la situazione era questa, i nostri obiettivi sono chiari, dobbiamo avere un percorso sostenibile di recupero, non guardare al brevissimo termine. Tutti sono in grado di valutare i progressi che abbiamo fatto”. Per farlo al meglio ho deciso di incontrare personalmente il maggior numero di dipendenti. Quando posso, vado nelle filiali e parlo con chi lavora. Inoltre, ogni trimestre illustro i risultati agli analisti e al mercato; nella stessa giornata ripeto la presentazione ai dipendenti, che possono collegarsi e ascoltarla, e offro loro la possibilità di fare domande. A quelle a cui non riesco a rispondere subito, mi impegno a farlo per iscritto, io o alcuni manager di prima linea. Ritengo che anche questo abbia contribuito a ricostruire un clima di maggior fiducia tra i dipendenti. Inoltre, da ormai due anni svolgiamo un’indagine sul clima interno. Comprende domande molto dettagliate che riguardano il Paese, il settore bancario, Mps, l’organizzazione, il mio ruolo e del management, l’interazione con gli altri colleghi.
È un passaggio che funziona davvero?
Nelle mie precedenti esperienze a indagini di questo tipo rispondeva il 30-40% dei dipendenti; la prima, svolta a gennaio 2018 in Mps, ha visto 18mila risposte su 23mila dipendenti. La seconda, fatta tre mesi fa, ha visto 19 mila risposte su un organico di 22mila dipendenti. Segno tangibile che la domanda di dialogo era ed è davvero forte. Questa iniziativa ha contribuito a ricreare un maggior coinvolgimento e senso di appartenenza tra i dipendenti.
Insomma, per lei comunicazione interna è soprattutto metterci la faccia, impegnarsi direttamente.
Per me è fondamentale e molto più importante del resto. A settembre partirò con un nuovo road show nei territori dove siamo presenti per aggiornare tutti sui progressi fatti e sulle sfide che ci attendono. Siamo una rete di vendita con migliaia di persone attive ogni giorno, in tutto il Paese.
Ad aggiungere interesse a questi incontri è la prossima scadenza, fine 2019, entro cui il governo dovrà comunicare alla Ue il percorso di uscita del capitale di Mps, un tema che fa ritornare di attualità possibili fusioni (i candidati più accreditati sono Banco Bpm e Ubi) per costruire realtà che reggano al meglio il mercato. Quindi un altro possibile fronte su cui impegnarsi. Viene spontaneo chiederle perché tanto impegno, considerato che anche sul fronte retributivo potrebbe ottenere altrove una maggiore soddisfazione.
Dopo 35 anni di lavoro credo di potermi permettere di fare qualche cosa – complicatissima, e all’inizio forse ai limiti dell’impossibile – per aiutare un’azienda importante in una situazione molto difficile.
Insomma, dopo questo periodo molto intenso, come vede il suo futuro e quello della banca?
Ho preso l’impegno di contribuire al rilancio del Monte e sono concentrato su questo obiettivo. Portare avanti un piano di ristrutturazione molto impegnativo e contestualmente avviare un piano di rilancio non è un’impresa semplice. L’evoluzione della banca sarà funzione di tanti fattori, diversi dei quali non sono nel nostro controllo. L’imperativo resta sempre quello di renderla sostenibile in ogni contesto, puntando sull’innovazione e riaffermando l’identità propria che le ha permesso di avere una storia centenaria. Per quanto mi riguarda, come ho più volte ribadito, il mio mandato, che scade con l’approvazione del bilancio 2019, è sempre a disposizione dell’azionista pubblico che ha tutti gli elementi per valutare il lavoro svolto.
Carlo Riva